Anapana, duro lavoro?

di Edoardo Parisi (Maroggia, aprile 2012)

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Anapana non è un lavoro duro, orientato, a essere diversi da quello che si è.

Quando pratichiamo Anapana, spostiamo e manteniamo l’attenzione a un punto “neutro” della nostra fisiologia alla base del naso mentre è toccato dal respiro, e piano piano sperimentiamo un altro inusuale ma possibile stato naturale di coscienza: “la presenza”.

Invece di uno stato identificato cioè chiuso, contratto e circoscritto da un pensiero, da un giudizio, un’immagine, un’emozione, sperimentiamo progressivamente uno stato di attenzione sveglia e disinteressata, uno spazio di consapevolezza, in cui il pensiero, la valutazione, l’interpretazione continuano ad esistere ma sono percepiti come fenomeni con cui non si è più identificati ( è uno stato non concettuale ma “postconcettuale”). E’ come se si fosse fatto un passo indietro verso una posizione o stato di coscienza da cui si può osservare queste formazioni mentali

La Presenza ha delle qualità intrinseche:

  • Non giudica ma distingue
  • Non prende le parti di nessuno ma capisce e rimane eqaunime ed imparziale
  • E’ tranquilla  e gioiosa, calma e profonda (non condizionata)
  • E’ la porta della saggezza che permette di scegliere il bene, di frquentarlo e lasiare ciò che fa male, ma non c’è giudizio che restringe il cuore.

La Presenza ha un suo “sapore” (in senso metaforico) o meglio, una sua sensazione specifica anche se non descrivibile a parole, che si sviluppa nel tempo attraverso la pazienza e la gentilezza e la diligenza nella pratica.

Man mano che il meditatore piano piano diventa sempre più familiare con la sensazione della Presenza, diventa anche capace di riconoscerla sempre più velocemente e in qualche modo, anche, per così dire…, trattenerla.

La capacità di concentrazione si approfondisce in modo naturale perché essa è una qualità di una mente tranquilla, adattabile e plastica che sta dove noi la mettiamo.

Lo sforzo che inizialmente si metteva in modo intenzionale per praticare si trasforma nel tempo in una semplice leggera intenzione di essere, “semplicemente essere”, essere svegli, attenti e lasciare fluire i processi a prescindere dal contenuto esperienziale sul piano fisico e mentale.

Quando Buddha insegnava ai suoi discepoli a meditare, non chiedeva loro di mettersi seduti in contrazione e conflitto con se stessi per ottenere quello “stato dell’essere” che tutti gli illuminati descrivono essere pace totale, amore profondo, compassione, gioia condivisa, equanimità,.

Sarebbe stato una contraddizione nei suoi stessi termini.

Queste qualità devono essere presenti fin da subito, fin da quando s’inizia la pratica. Ciò che è importante comprendere, allo scopo di praticarlo, non è tanto la tecnica in se stessa, ma l’attitudine con cui la si fa, “il come” ci si posiziona internamente mentre si pratica.

Questo è uno dei motivi per cui un maestro o insegnante è assolutamente necessario. Da un lato egli controlla e sostiene la giusta attitudine dello studente e dall’altra genera con la sua stessa pratica e Presenza “un campo” di coscienza che in qualche maniera sopperisce alla mancanza di presenza dello studente che normalmente è inevitabilmente sbilanciato nello sforzo e nella ricerca di come si fa.

Sembrerebbe un assurdo: per praticare si deve già possedere quello che è il risultato della pratica.

Il paradosso però è solo teorico, e la sua soluzione sta nel praticare stesso. Infatti, quando siamo seduti per un certo periodo di tempo, con l’intenzione di sperimentare l’insegnamento, nei miliardi di attimi che costituiscono un solo secondo di tempo, ci sono alcuni singoli, impercettibili momenti di purezza della percezione in cui s’instaura di fatto un po’ di Presenza indifferenziata. Ciò avviene nonostante tutti gli errori intrinseci alla pratica del meditatore, e una breccia si apre nella fortezza delle nostre identificazioni di cui per definizione non possiamo essere consci.

Emerge allora, progressivamente, l’evidenza di quanta pazzia, tensione, contrazione, conflitto, dolore noi siamo portatori, proprio quando siamo alla ricerca, “meditando”, di essere migliori, risultando questa ricerca per se stessa, una pratica del conflitto e della lotta.

Piano piano, la “presenza” si instaura con più forza, ed in essa vengono inclusi anche il conflitto e la lotta che ci sono così abituali.

S’impara proprio a vedere conflitto e lotta come la sorgente stessa della sofferenza. S’impara che senza “illuminazione”, si sperimentano sofferenza e tensione.

Anche negli altri campi della vita quotidiana siamo soggetti alla legge della sofferenza in mancanza di saggezza.

Siamo così assuefatti alla sofferenza che spesso non ne abbiamo consapevolezza, e anzi, continuiamo ad elaborare inconsciamente strategie per non sentirla e una di queste è proprio quella di trattenere o irrigidire il respiro in modo da non sentire più gli avvertimenti spiacevoli dal corpo che c’è qualcosa di meglio da fare.

I contenuti o formazioni mentali che sorgono In un campo di consapevolezza ristretto, non hanno spazio sufficiente per essere visti come oggetti di consapevolezza  ed osservazione per assumono la forma di “IO”.

Lo spazio mentale ristretto di questo tipo può essere assimilato a un pallone. Se la pressione dell’aria è troppa, il pallone se fosse intelligente si sentirebbe invaso e premuto da dentro e la tensione che si genera sulla sua superficie sarebbe percepita come dolore e sofferenza, chiaro avvertimento che c’è qualcosa da cambiare per esempio che dovrebbe diventare più ampio.

Continuando a praticare s’impara che la sofferenza non può essere affrontata direttamente nel tentativo inutile di eliminarla, perché ciò implica conflitto e si impara anche che neanche il conflitto può essere eliminato direttamente, perché sarebbe a sua volta una lotta.

Che fare dunque?

L’unica possibilità è quella di creare le condizioni affinché la soluzione avvenga da sola e cioè si pratica facendo del proprio meglio, senza preoccuparsi dei successi e degli insuccessi di cui è costellata la Pratica. Allora, a prescindere dalla nostra volontà e capacità, si avranno momenti di purezza anche minimi e forse neanche sufficienti ad essere percepiti coscientemente, ma il processo virtuoso verrà avviato.

Infatti, la consapevolezza è la causa diretta della consapevolezza.

Piccoli momenti impercettibili di Consapevolezza sono la causa iniziale della liberazione finale dall’ignoranza e dalla sofferenza.

Progressivamente e automaticamente s’impara a sperimentare la pace come dono intrinseco della Presenza o Consapevolezza che sono sinonimi.

 

Che tutti gli esseri possano praticare sereni e fiduciosi nella pratica stessa

Che tutti gli esseri siano completamente liberati dal condizionamento di voler manipolare la realtà.

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