Attitudini nella pratica meditativa

di Edoardo Parisi   (Maroggia, giugno 2012)

 

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Possiamo approcciare la meditazione secondo due attitudini che peraltro emergono di continuo durante la pratica:

  1. come duro esercizio mentale per ottenere a tutti i costi un risultato od un cambiamento del proprio stato interiore ed emotivo.
  2. come continuo e disciplinato processo di accoglimento di se per l’integrazione amorevole dei propri processi.

La prima modalità introduce un elemento di conflitto interiore con se stessi e cioè di sofferenza.

La seconda modalità esercita invece la propria autoaccettazione che induce ad una mente morbida, quieta e gioiosa, capace di recepire la realtà così come è.

Non essendoci conflitto possiamo andare sempre più nel profondo di noi stessi, superando le barriere dell’inconscio che per definizione difende dalla sofferenza e che si avvale, nella vita di tutti i giorni, di tutti i nostri abili “protettori dal sentire” o “sabotatori della verità” che ci distraggono e ci spingono all’azione reattiva e compulsiva.

Se la sofferenza è accolta senza conflitto, il sentiero della liberazione ha inizio.

La verità di quanto sopra risulta evidente ad un meditatore che si espone al processo meditativo in modo intensivo.

Col progredire delle ore di meditazione egli espone in modo sempre più chiaro alla propria consapevolezza quanto di oscuro e doloroso si annida al suo interno.

Quando si medita per un certo periodo di tempo in modo continuato, specie durante la pratica di Anapana, cominciano a sorgere insofferenza, sonnolenza, confusione, ondate estenuanti di pensieri non voluti, emozioni dolorose come odio, rabbia, bramosia incontenibile di soddisfazione dei sensi, irrequietezza, e chi più ha, più ne metta.

All’inizio il meditatore attribuirà le proprie insofferenza a cause esterne, ma poi comincerà a sentire tutta la sofferenza autogenerata che deriva dalla sua opposizione al dolore.

Il lavoro del meditatore non è tanto quello di tenere “duro” nel processo meditativo che ha intrapreso, quanto quello di trovare la giusta attitudine verso quanto emerge dal suo “sistema”.

Si dice tecnicamente “cercare il giusto sforzo”.

Se si rinuncia a meditare non si progredisce e se ci si sforza “troppo”, si ottiene lo stesso risultato.

Sembra una empasse, ma è un gioco di equilibrio sottile che si impara strada facendo, soprattutto sbagliando, così come un bambino impara a camminare essenzialmente cadendo e trovando così l’equilibrio dinamico nella instabilità del movimento.

Se l’attitudine è quella di forzare nella meditazione e si cerca di andare avanti a tutti i costi dimenticando l’amore per se stessi, quasi come se fosse una lotta con le proprie distrazioni ed i contenuti non ricercati della nostra mente, o contro le sensazioni fisiche che emergono dallo stare fermi, si è nel pieno del conflitto, e della generazione della propria sofferenza.

Se  invece si genera amorevolezza ed accoglimento di se stessi, sentendo tutto il dolore e la sofferenza che emergono, permettendo loro di arrivare alla consapevolezza e di sciogliersi nella vacuità del momento presente, si ha la possibilità di progredire nella crescita personale, pur non ponendola come obiettivo primario.

Il paradosso è che se si ha amorevolezza e morbidezza per se stessi, invece di considerare se stessi il nemico numero uno da cambiare a tutti i costi, non si rimane fermi sulle proprie posizioni insoddisfacenti e si comincia a cambiare.

E’ un po’ come una mamma buona che di fronte ad un dolore del suo bambino, non sminuisce la sua sofferenza od il suo spavento e neppure le drammatizza, ma gli sta accanto con “vera comprensione” ed amorevolezza, facendo contemporaneamente le medicazioni necessarie ed il bambino…. si quieta.

In Anapana viene da subito insegnato a guardare ai propri contenuti mentali e fisici, qualunque essi siano, in maniera oggettiva come fenomeni con cui non ci si identifica ma che si osserva con leggerezza si, ma anche con profondo interesse.. “scientifico”.

Ciò avviene un po’ alla volta e senza essere troppo severi con se stessi se non ci si riesce da subito e perfettamente.

Progredendo anche solo un poco nella meditazione, si impara attraverso la propria esperienza, specie in Vipassana,che il cambiamento avviene solo nell’istante del momento presente, ora e non alla fine di esercizi estenuanti.

Si impara che il cambiamento è una legge inerente a tutti i fenomeni, intrinseco al livello microscopico costitutivo ed atomico delle cose ed avviene comunque anche se non lo vogliamo, perché è la sostanza stessa della vita che per sua struttura è impermanente e fluisce.

Riguardi la Equanimità è ancora necessario dire due parole specifiche su questa qualità per non incorrere nell’errore abbastanza diffuso di considerare la meditazione una disciplina che isola dal mondo e per questo fare ri9ferimento al foglio specifico allegato.

Ora una nota di avvertimento:

La meditazione Vipassana è per  persone che hanno un io sufficientemente strutturato da avere la forza interiore di  rinunciare alla tentazione di usarla male per scappare da se stessi nei vari modi possibili,

Se l’intenzione non è pulita, può venire la tentazione di cercare solo stati di benessere e non la verità di noi stessi qualunque essa sia. In questo modo lsi fa diventarela medirtazione uno strumento di ulteriore congestione energetica invece che di liberazione.

 

Concludendo

Continuiamo ad accogliere consapevolmente i contenuti piacevoli o spiacevoli del nostro sistema, in modo da osservarli nel loro dispiegarsi energetico che nel frattempo si dissipa.

Continuiamo ad imparare attraverso la nostra propria esperienza che nessuna sensazione od esperienza è permanente, ne può dare soddisfazione vera e duratura.

Alla fin fine, se si osserva bene, attraverso l’esperienza di un corso di meditazione prolungato, appare evidente che tutto è inafferrabile, vacuo, non controllabile non governabile.

Possiamo solo vedere e lasciare andare.

Questa è la chiave per la felicità piena e duratura.

Impariamo spontaneamente a disidentificarci dalle nostre sensazioni, pensieri ed emozioni (senza paura di diventare freddi e vegetali) ed a diventare equilibrati, efficaci e di successo.

Impariamo ad agire per il bene di noi stessi e degli altri e non a reagire compulsivamente alla sofferenza ed all’avversione.

Continuiamo a ricercare e trovare amore per noi stessi e per gli altri durante il processo di purificazione, senza scappare davanti alla sofferenza, ottenendo in questo modo il cambiamento da subito, non perché lo si cerca spasmodicamente ma come conseguenza di un atto di assenso alla realtà e cioè ancora una volta di amore e consapevolezza.

Che tutti gli esseri progrediscano nella leggerezza

Che tutti gli esseri siano felici nell’amore senza condizioni!

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