(dalla Prefazione di Fabio Zagato al libro di J.E.Coleman ‘La Mente Tranquilla’)
Ho conosciuto John Coleman nel 1974, durante il primo intensivo di 10 giorni di Meditazione Vipassana organizzato in Italia.
Tre studenti che avevano praticato in India con il maestro Goenka, al loro ritorno in Italia avevano invitato John Coleman a guidare un intensivo a Torrazzetta, nel pavese.
Anch’io ero appena tornato dall’India, dove avevo sfiorato, perché di più non potrei dire, il vasto mondo induista.
In Italia avevo invece frequentato le prime comunità Tibetane, avevo conosciuto alcuni Lama, ero stato anche “battezzato tibetano” e quindi, tra India e Tibet, avevo accumulato un caleidoscopio di impressioni molto “orientali” delle pratiche meditative. Il che, altronde, penso sia stato abbastanza comune alle persone della mia generazione.
John Coleman era grande e grosso e vestiva anonime tute da ginnastica, che accoppiava con dei golf privi di qualsiasi forma e di colore incerto.
Aveva, (ha, veramente) mani e piedi extra-large, considerava la Macrobiotica “quella cosa a base di cavoli e carote”, beveva il cappuccino alla fine dei pasti. Dal punto di vista dell’estetica meditativa era un disastro.
L’intensivo consisteva nel passare ore su ore a praticare una tecnica tediosissima di attenzione alla sensazione provocata dall’ aria quando tocca le narici nell’atto respiratorio, una cosa di una noia pazzesca ma che aveva inoltre la capacità di farmi diventare nervosissimo.
A guardare John seduto in fondo alla sala su un rialzo coperto da un tappetino (nemmeno indiano, era uno scendiletto qualsiasi) ed in tuta da ginnastica, la Meditazione Vipassana mi sembrava evidentemente una cosa arrangiaticcia, poco orientale, forse era qualcosa inventato dagli americani.
Anzi più passavano i giorni più mi convincevo che doveva trattarsi di una di quelle solite cose che gli americani importavano dall’estero senza capire di cosa si trattava. Un po’ come l’Impero Romano visto da Cecil De Mille.
Non c’erano rituali, non c’erano mantra non c’era neanche una piccola visualizzazione da fare; niente di niente se non ore su ore a respirare.
Non si poteva parlare, non si poteva leggere non si poteva far niente se non respirare e star zitti. Forse era una pratica monacale per penitenti sado-maso.
Bisognava alzarsi alle 4 di mattina e andare a letto alle 20.30.
Io ero abituato a fare più o meno l’opposto, alle 8 di sera cominciavo appena a sentirti vivo, per cui poi passavo la notte sveglio.
Il cibo era costituito da riso e verdurette lesse, e si mangiava una volta al giorno. Niente curry profumati, niente fiori e canti. Riso, verdurette e silenzio.
Dopo 3 giorni e 1/2 di questo tormento Coleman ci condusse attraverso Vipassana, una seconda tecnica che almeno era una novità rispetto allo star lì a respirare.
In compenso provai dei dolori accecanti alle gambe e a tutto il corpo, e sperimentai odio allo stato puro per l’insegnante e per tutto ciò che aveva contribuito a farmi trovare lì in quel momento.
A quel punto avevo deciso di andarmene da quello squallore, da quella tortura insensata. Mi recai quindi da Coleman, deciso a dirgli il fatto suo e poi andarmene sbattendo la porta.
Non era così che si organizzava un corso di meditazione, qualsiasi meditazione volesse essere.
Caso volle che in fila davanti a me, sulla soglia della stanza dove Coleman aveva i colloqui con gli studenti, ci fossero quattro giovani svizzeri, del tipo freak-bene, che in attesa di parlare con Coleman, stavano confrontando tra di loro gli insulti che erano in attesa di sbattere in faccia a Coleman.
Erano arrabbiatissimi, e si dicevano le stesse cose che anch’io avevo intenzione di dire a Coleman, tali e quali…
E’ dal fango che nascono i fiori; ascoltare me stesso e vedere me stesso in loro mi fece provare un certo senso di vergogna, un certo disagio verso questo me stesso viziato e querulo.
Non che loro fossero il fango ed io il fiore, ho una grande riconoscenza per quegli involontari specchi delle mie miserie.
Il fiore fu che me ne tornai stringendo i denti al mio intensivo e poi andò come doveva andare, tant’è che sono ancora qui, a mangiare ciclicamente riso e verdurette in silenzio.
Dimenticavo di dire che durante quel primo intensivo, infransi praticamente tutti i precetti più qualcun altro.
Per inciso, ciò mi provocò delle complicate avventure interiori, per cui sconsiglio vivamente l’esperienza.
Ma la mia generazione, oltre ad essere di poeti e navigatori, era anche una generazione di rivoluzionari a 360 gradi.
Le regole di qualsiasi tipo ci andavano strettissime, romperle era quasi un riflesso automatico, tanto per mettere le cose in pari.
In quell’occasione, conobbi un aspetto di John Coleman che apprezzai molto anche in seguito, e che é una delle caratteristiche specifiche dell’insegnamento di John: e cioè la capacità di richiedere disciplina, impegno e responsabilità dandoti gli strumenti per scoprire cosa siano la disciplina l’impegno e la responsabilità e nient’altro, neanche un santino o una fotoricordo a cui attaccarti.
A qualcuno forse sembrerà strano, ma astenersi da diventare il confessore, la madre, il padre, dio, la zia, un mirabile esempio, un mostro di crudeltà, un santo, una sentina di nequizie ecc. per i propri studenti, richiede una capacita elementare e raffinatissima, come tutto ciò che ha inerenza al Dhamma.
Richiede cioè la capacità di lasciare qualcun’altro solo con le proprie proiezioni, dopo avergli dato gli strumenti per suscitarle, portarle in luce, ed affrontarle.
Molto spesso noi riusciamo più o meno a compiere i primi due passi, ma desideriamo che qualcuno compia il terzo per noi.
E la richiesta pressante che in infiniti modi diversi noi portiamo al nostro insegnante, é la stessa che abbiano posto ai nostri genitori, alla società e a dio: risolvimi il problema, maledizione!
Risolvimelo dandomi una ricetta, un pezzo di carta, un immagine o qualcosa che mi tranquillizzi e che soprattutto possa accusare, se per caso casco in una pozzanghera a faccia in avanti. Invece niente.
C’è solo un sentiero, l’orizzonte è coperto da una nebbiolina vaga.
John mi ha sempre dato delle risposte quando gli ho fatto delle domande, a volte dicendomi che non aveva risposta.
Non lo ho mai potuto considerare indenne da errore, perché ha sempre insegnato che gli uomini imparano solo tramite l’errore, e ho visto che é vero.
Ha sempre avuto un’umiltà profonda, reale, per cui é la sola persona che non mi renda sgradevole e fittizia la parola stessa.
Ha un grande cuore, e divide i suoi meriti con gli altri esseri viventi solo perché questa é la natura del cuore.
Per questo é il mio insegnante, ed io per sempre divido i miei pochi meriti con lui.