Due parole riguardo la visione profonda che si ottiene con Vipassana.
Durante la pratica preliminare a Vipassana (Anapana), si pone attenzione alla sensazione generata dal tocco del respiro con la pelle alla base del naso e durante Vipassana si pone l’attenzione ad “Anicca” (l’impermanenza di ogni fenomeno percepito) mentre si sentono le sensazioni del corpo.
In questo modo quello che si fa è in fondo solo orientare l’attenzione (a quegli specifici oggetti del nostro conoscere).
Man mano che la pratica si consolida, l’attenzione si diffonde in modo naturale, spesso inconsapevolmente, anche al soggetto che conosce e al supporto sul quale i fenomeni percettivi, sensoriali e mentali si manifestano.
Anicca (ovvero la sua fluttuazione nella coscienza) e si rivela solo in quanto si staglia su qualcosa di stabile e fermo che per definizione non può essere che fuori di tempo e di spazio.
Solo da questa prospettiva Anicca può essere sperimentata, perché se “ciò” che conosce, qualunque cosa essa sia, si muovesse insieme al movimento di ciò che è conosciuto, la legge di Anicca che riguarda tutti i fenomeni non potrebbe emergere alla consapevolezza. Solo da un campo “immobile” e silenzioso, si può fare questa esperienza fondamentale e rivoluzionaria dei nostri modi di concepire la “realtà”,
L’attenzione, in altre parole, durante la meditazione Sia di Anapana o di Vipassana, spesso senza esserne consapevoli, va anche al “campo del conoscere” o “coscienza” e non solo al “conosciuto”.
Per dirla in altro modo ancora, l’attenzione non va solo verso la sensazione del tocco del respiro o verso Anicca, ma va anche al soggetto che le conosce (Mente, coscienza, “campo del conoscere”, sono tutti sinonimi per quel che si intende qui).
Di codesto “campo del conoscere ” noi facciamo continuamente esperienza, ma generalmente non in maniera consapevole perché esso è oscurato dai suoi contenuti come pensieri, sensazioni e percezioni sensoriali che prendono il sopravvento, così come fa il sole con le stelle che vediamo solo di notte ma che ci sono anche di giorno sebbene oscurate dalla luce del sole.
Questa luce che illumina l’esperienza e che conosce, questo campo del conoscere è continuamente conosciuto, ma non con la mente ordinaria, lo si conosce solo essendolo, perché è prima della mente ordinaria.
La mente ordinaria è solo una sua fluttuazione, è l’attività della coscienza e viene dopo, se così si può dire.
Un grande maestro indiano diceva “la conoscenza (ovvero le idee e i concetti) è strutturata nella coscienza”.
Tutto questo diventa familiare con Vipassana e magari un po’ alla volta, attraverso l’esperienza, si intuisce, che il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto sono solo una distinzione fittizia della nostra mente dualistica che deve dividere soggetto ed oggetto perché è la natura della mente ordinaria quella di dividere per poter avere il suo specifico tipo di comprensione.
In realtà i due, soggetto ed oggetto, non esistono separati ma esiste solo il processo del conoscere.
Fermati e lo puoi vedere da te stesso e subito: il soggetto è un costrutto mentale, l’oggetto anche, c’è solo il conoscere. Questo processo è impersonale, non c’è soggetto, non c’è oggetto.
Noi in essenza siamo la luce che illumina la manifestazione che avviene nella nostra consapevolezza (o conoscere) e la manifestazione che conosciamo è fatta della stessa sostanza del nostro conoscere.
A una persona addestrata non servirebbe neanche chiudere gli occhi per accorgersene. Ma noi gli occhi nelle sedute di pratica li teniamo invece chiusi, perché siamo così fragili nel farci catturare e distrarre dalle percezioni, dalle sensazioni, dalle relazioni, dalle emozioni e dalle nostre storie personali, che vi collassiamo dentro come la materia siderale nei buchi neri, perdendo il senso del nostro vero essere e allora abbiamo bisogno di un espediente, di qualcosa utile a farci prendere qualche distanza da ciò che viviamo, in modo da accorgerci di ciò che avviene veramente nel nostro processo del conoscere.
Questo è ciò che facciamo con Anapana. Invece di farci catturare dai “10.000 oggetti del mondo” se ne sceglie uno solo, il tocco del respiro perché esso è evanescente nell’attimo stesso in cui avviene, e la mente allora comincia a riposare in sé stessa, nella sua stessa luce, nei vari stati di assorbimento così ben descritti dai Maestri.
E quando poi quando si passa a Vipassana e a “conoscere Anicca”, si trova la stessa evanescenza sensoria e la dissolvenza delle congestioni, e ciò che rimane è solo luce che illumina la nostra esperienza soggettiva anch’essa fatta di luce.
Alla fin fine, lo scopo della meditazione Vipassana non è altro che riconoscere esperienzialmente che noi siamo questa luce in modo da imparare a dimorarvi senza discontinuità, dando contemporaneamente pieno valore di realtà che condividiamo nel nostro percepire (il mondo).
Il mondo è assolutamente reale, ma non è fatto di quella cosa strana che i fisici chiamano materia e che non riescono a trovare per quanto dissezionino gli atomi.
Questo è il significato di “illuminazione”.
Questa “illuminazione” è una esperienza assolutamente ordinaria e connaturata alla natura di ogni ordinario essere umano.
La cosa da comprendere è che codesta “illuminazione” è solo offuscata e nascosta dai nostri condizionamenti culturali che ci convincono che noi siamo questo mucchio di pensieri, emozioni e immagini e teorie e relazioni…, e che è offuscata dai nostri attaccamenti che ci mantengono nell’ignoranza di noi stessi e della realtà, del Dhamma in una sola parola.
Questa “illuminazione” così ordinaria, è solo l’inizio del vero cammino spirituale, perché ora essa va infusa in tutto il quotidiano anche quando siamo con gli occhi aperti, senza rimanere confusi dalla percezione.
Il cammino non termina mai, e ciò vale per chiunque, perché le sfide alla continuità e alla profondità della nostra saggezza sono sempre all’altezza della evoluzione personale. A volte la nostra “saggezza” trema e ci ritroviamo spesso a essere “principianti” e a reimparare di continuo ad essere umili.
Fin dall’inizio della pratica si accede all’illuminazione (che già siamo) in modo diretto (magari in brevissimi istanti di attenzione, così brevi da non accorgersene nemmeno e negarli).
Il compito dei ritiri è di allungare questi brevissimi istanti per dimorare consapevolmente nel nostro vero essere che è luce che illumina e renderlo stabile.
È in questo senso che il cammino è progressivo, sia prima che dopo la cosiddetta “illuminazione”. È un processo di riconoscimento e stabilizzazione e questo avviene nel tempo.
I ritiri di Vipassana, così come si declinano oggi, stanno evolvendo in modo da portare alla condivisione e alla diffusione della comprensione di cui sopra, lasciando contemporaneamente inalterati gli insegnamenti tradizionali nella loro gradualità e purezza originaria.
Quello che matura è solo la comprensione che integra, includendola, quella precedente. La luce sugli insegnamenti che si genera durante i ritiri è un crescendo e ognuno se ne avvantaggia per quello che vuole o che può.
Il Dhamma è vivo e ciò è molto rassicurante.
In questo mondo odierno che sembra fuori di testa, mi sembra di constatare che, in simmetria alla pazzia generale, sia disponibile una sempre maggior facilità di andare nelle “profondità” dell’insegnamento. Sta avvenendo qualcosa di nuovo nella consapevolezza umana e tutto ribolle.
Ne prendo atto e quindi mi sembra che sia ora di andare dritti nel profondo dell’insegnamento del Bhudda senza compromessi, correndo i rischi dell’esporsi in modo da per essere felici.
Infatti, per esserlo, l’unico modo è di essere allineati al potenziale umano oggi disponibile alla umanità, almeno ad alcuni.
Con passione
Edoardo